Napoli, una storia vera di statica, catasto e condoni.

Non si tratta del solito racconto di un Nordico che vuole gettare fango addosso al Sud arretrato e caciarone.

La storia, verissima, è la scoperta da parte di un quarantenne di un universo di cui non sospettava neanche l’esistenza.
I miei studi e la mia indole curiosa mi portano istintivamente a cercare di calcolare il momento di una trave in appoggio o di verificare le crepe apparse all’improvviso su di un muro.
I tanti anni passati da responsabile di stabilimento e da RSPP mi portano istintivamente a valutare impianti elettrici, antincendio e sicurezza.

Eravamo nel 2004 e , in quell’anno ho avuto due vicissitudini con il catasto della mia città:

Un errore di dieci centimetri nella posizione di una finestra e due tramezzi interni spostati in un appartamento ha dato luogo alla spesa di circa tremila euro per sistemare i disegni e per sanare la situazione.<br />
Un mio conoscente ha avuto guai perché una tettoia con telo in plastica appariva sulle foto satellitari della sua casa, ma non era nei disegni registrati dal catasto.

Altra pratica e altri soldi spesi, non da me , ma da lui.

Nell’estate dello stesso anno , per lavoro mi sono trovato a passare alcuni giorni a Bacoli , bel borgo napoletano, davanti al golfo di Baia.

Erano parecchi anni che non mi recavo a Napoli e , devo ammetterlo , il traffico era migliorato.

I miei occhi da nordico, notavano che molti indossavano la cintura di sicurezza, i motociclisti il casco, e le automobili erano spesso di grossa cilindrata.

Non ci si muoveva e il traffico era un incubo , ma perlopiù con la cintura allacciata.

Viene la sera , e dobbiamo portare il materiale al sicuro nel capannone del nostro referente locale.

Ci incamminiamo con i mezzi in una piccola processione e io mi ritrovo in macchina con un ragazzo, che chiameremo Antonio.

Antonio si esprime in dialetto napoletano stretto , intelligibile, ma solo fino ad un certo punto , per le mie orecchie non allenate.

I comandi per la direzione sono secchi e veloci , tipo “acca’ , che ci sta……”.
Non so bene cosa ci sia da quella parte , ma prendo senza meno la direzione indicata.

E’ notte, saliamo per le pendici del Vesuvio, su per una strada tutte curve.

Arriviamo in cima ad pendio, e mi accorgo che l’asfalto , sotto le ruote è strano.
Guardo meglio e mi accorgo che sto passando sopra una antica strada romana, con i classici pietroni esagonali e ottagonali, posati un paio di migliaia di anni fa.

E mi domando come diavolo questo sia possibile.

Arriviamo ad un semaforo, la strada si restringe, e nel buio, noto il motivo della strettoia.

Stiamo passando giusto sotto i resti di un antico acquedotto, e il semaforo regola il passaggio a senso alternato del fiume di macchine che si dipana per l’antica strada romana attraverso la stretta volta.

La mia domanda al Antonio su fatto che come diavolo sia possibile che si debba passare proprio su di quella strada, ha la sola risposta: “…nun c’è altro,…” o qualcosa del genere.

Ma non c’è tempo di ammirare l’architettura, bisogna andare avanti.

E lo sguardo subito si perde nella visione dall’alto della zona industriale verso cui siamo diretti.

Un gruppo di capannoni tutti ammassati insieme, laggiù in basso, senza lampioni e illuminati solamente dalle loro luci interne, all’interno di una della bocche del Vesuvio.

E una fumarola proprio laggiù, subito a fianco, mi fa subito pensare a costruzioni fatte dentro il cratere di un vulcano attivo, come unica via di fuga la strada romana e la strettoia dell’acquedotto.

Lo shock culturale è fortissimo, comincio a sentirmi come inebetito, ma il bello deve ancora venire.

L’ingresso della zona industriale, una strada asfaltata alla meno peggio, e senza indicazioni, è rischiarata da due fuochi.

Due roghi di spazzatura fanno da forche caudine e da segnalazione.

Bruciano così, da soli, senza nessuno che li alimenti, ma sono belli grossi e fanno un fumo nero e denso , ma senza puzza, e dureranno ancora per ore.

I veicoli si addentrano dentro stradine strette, con muri altissimi tutti grigi e portoni in acciaio , che danno una impressione di inviolabilità.

Cani abbaiano nella notte al nostro passaggio , con latrati feroci.

Antonio sbotta : “chiano che ci stanno i cavi…..” e mi accorgo che per terra ci sono tanti, giganteschi cavi elettrici, che attraversano la strada e vanno a finire in contatori della luce fissati ai muri, senza protezione.

La completa demenzialità della cosa mi lascia attonito, ma ormai ben poco può stupirmi.

La piccola carovana arriva a destinazione, e , mentre altri armeggiano con serrature, catene e lucchetti, chiedo ad Antonio sul motivo per cui ci debbano essere muri così alti, con tanto di spuntoni in cima e portoni degni del caveau di una banca.

Antonio mi guarda negli occhi e mi dice: “accà ci sta brutta gente”.

Mi guardo in giro, ascolto il latrare impazzito dei cani, e guardo i cocci di vetro sui muri altissimi.

Mi sento preso dal desiderio fortissimo di farmi i cazzi miei.

Neanche un giorno e mi sto già ambientando.

I portoni si aprono, si entra nel cortile e il portone interno del capannone, larghissimo, sarà stato una dozzina di metri, si apre.

Appena entriamo Antonio dice: “chiano che ci stanno i buchi”

Infatti , sparsi in giro per il capannone semideserto ci sono delle buche rettangolari enormi e profonde dagli orli sfrangiati, poste a casaccio.

Comincia uno strano slalom per parcheggiare, il terreno è illuminato da una unica luce radente e lontana, che non ci aiuta.

Non appena terminato le luci vengono accese, ed io penso, ma non si poteva farlo prima?

Si comincia a chiacchierare e il Boss proprietario del capannone mi dice che le buche sono residuali del precedente utilizzatore, che fino all’anno prima  faceva la manutenzione dei camion.

Sto per dire che da noi le buche sono vietate, ma il desiderio di farmi i cazzi miei prende nuovamente il sopravvento.

Mi guardo intorno mentre gli altri si preparano e mi viene fatta vedere con orgoglio la struttura.

Il capannone è largo e molto lungo , i muri, senza colonne travi sono costituiti da una fila di “bucatoni”, quei mattoni di cemento grandi e che si usano di solito per i tramezzi.

Nient’altro.

Il tetto a due falde è costituito da lastre semitrasparenti , sorrette da travi in ferro, senza l’ombra di un tirante o di una colonna di sostegno.

Anzi, no, una colonna c’è.

la trave portante del colmo del tetto era troppo lunga , ed è stata divisa in due parti.

Una colonna lunghissima , costituita da una unica trave IPE (quelle con il profilo ad H), sostiene il tetto.

Sarà stata larga venti centimetri al massimo , e lunga almeno un decina di metri, vista da lontano sembrava sottile come un filo di paglia.

Mi avvicino affascinato e guardo in alto.

La trave non è fissata, ma solo appoggiata su di una lastra quadrata saldata al tetto, larga circa un metro.

Chiedo il perché di quella strana disposizione.

Mi viene detto che lì spesso ci sono scosse telluriche (ci stanno i terremoti) e così la trave può oscillare liberamente, altrimenti il tetto si “scassa“.

Faccio notare che con la colonna posizionata in quella maniera basta che un camion la urti per sbaglio e tutto il tetto viene giù, ma proprio tutto…

Mi rispondono laconicamente: “ma noi stiamo attenti”.

E’ definitivo , devo proprio farmi i cazzi miei.

Ma il discorso prosegue, e si arriva al nocciolo:

“il geometra dice che ci sono dei problemi per il condono”.

La mia mente vacilla solo al pensiero del possibile condono di una struttura del genere.
Abusiva, all’interno di un cratere vulcanico attivo e costruita in moda da rendere molto pericolosa la necessaria demolizione.

Ma il mio neonato istinto primordiale mi impone nuovamente di dire qualcosa di rassicurante.

Parlo degli statali che rompono i coglioni e delle norma assurde e difficili da rispettare, e finalmente il discorso finisce lì.

Il giorno dopo alla luce del sole l’impatto è diverso , i roghi sono spenti e un ragazzo li sta alimentando con la spazzatura che dovrebbe provenire dalle attività di quella piccola zona industriale, i cavi elettrici e le buche di giorno sembrano meno minacciosi, e alla fine ci salutiamo con cordialità.

Ma noi ci abituiamo presto, d’altro canto fino a pochissimo tempo fa eravamo dei birichini anche noi.

Penso alla nostra piccola “dacia” in collina, costruita negli anni 70 facendo saltare le pendici di una montagna con la dinamite, un terreno non edificabile e sottoposto a vincolo paesaggistico.

Sanata a tappe in quattro successive ondate di  condoni edilizi.

Ma ogni tanto ripenso alle possibili reazioni ad una esperienza del genere subita da un ingegnere tedesco.

Dopo anni si sveglierebbe sudato nel suo piccolo lettino bianco da teutonico, mormorando :

“l’orrore…. ho visto l’orrore”.