Il lato oscuro degli IDE (Investimenti Diretti Esteri)

Ricevo e volentieri pubblico.



Le aziende italiane, troppo piccole per competere in un mercato globale, si sono lasciate acquisire.
Molte di queste piccole aziende erano a conduzione famigliare e non si sono lasciate perdere l’opportunità di cedersi. Il settore Horeca (hotel, ristoranti e bar) ha visto negli ultimi anni, a causa della crisi economica e della scarsa marginalità delle aziende, una serie di acquisizioni, sia da parte di gruppi industriali italiani che da parte di multinazionali straniere.



La crisi in Italia ha fatto registrare forti contrazioni nel settore e per porvi rimedio le multinazionali hanno cambiato obiettivi e strategie praticando sconti, fornendo contributi. Hanno dirigenti esperti e consulenti super pagati per proporre idee, per riorganizzare le vendite, ricerca e sviluppo. Ma qualche multinazionale è crollata comunque: si è assistito a un balletto di licenziamenti e riorganizzazioni, ma i conti continuano a non tornare. Cosa è successo in Italia?
In Italia c’è stato un boom di crescita delle private label. Un esempio: Conad, Eurospin, Esselunga e Sigma fanno produrre col loro marchio specialità e prodotti premium da marchi noti o da specialisti artigiani. Molte ditte italiane (alcune delle quali hanno una forte vocazione all’esportazione) stanno crescendo adottando strategie, innovando prodotti e packaging oppure mettendo in campo strategie di marketing vincenti. Tutto questo accade mentre alcune grandi multinazionali stanno perdendo vistosamente quote e marginalità. La crisi ha cambiato il comportamento dei consumatori: si mangia meno fuori, si va a fare la spesa nei mercatini rionali, nei mercati all’ingrosso, direttamente dai produttori attraverso i GAS, negli spacci aziendali, nei mercatini a km 0. Per non parlare delle vendite dirette on line dal produttore al consumatore: l’e-commerce in Italia sta prendendo piede e questo trend va studiato e compreso. Il mercato italiano è in crisi per tutti, solo chi sa fare bene il suo mestiere riesce a limitare i danni e cresce all’estero. Non basta il brand, servono esperienza e capacità.


Importanti aziende internazionali del settore delle bevande, arrivarono in Italia nei primi anni duemila e iniziarono ad acquisire a man bassa distributori e aziende che producevano birra. Da tali operazioni di fusione, le nuove società che nascevano, si riportavano in deduzione dal reddito le perdite delle società partecipanti all’operazione. Il fenomeno, detto del commercio delle bare fiscali, è una pratica dove una società con un utile elevato, per abbattere tale risultato positivo (e pagare conseguentemente meno imposte) procede ad una fusione con una società solo per il suo risultato economico negativo. Lo schema di questo tipo di operazione prevede che una società si indebiti per acquisire le partecipazioni di un’altra società (detta società target). Il riporto delle perdite e quindi il conseguente vantaggio fiscale, sommato ai nuovi flussi di cassa prodotti dalla società acquisita, genera le risorse necessarie a ripagare il debito contratto.


Carlsberg in particolare, impose in Italia alle proprie filiere di distribuzione una mentalità da business school che mal si adattava al variegato mercato locale e alle abitudini di consumo degli italiani: tra il 2004 e il 2006 ebbe una grossa perdita di clienti e fatturato. Alla fine di questo periodo, si procedette alla chiusura delle filiali. Al fine di tagliare sul personale si approdò ai transit point: piccoli magazzini per la distribuzione locale, dove la merce arriva giornalmente già pallettizzata, ogni pallet contiene l’ordine del cliente. Salvo incidenti, i transit point operano senza scorte, sono localizzati al centro di aree distributive molto ampie. Questo tipo di organizzazione apparentemente razionale, si dimostrò fallimentare perché venne a mancare il contatto diretto con la clientela e vennero meno tutta una vasta gamma di servizi personalizzati che erano il punto di forza delle precedenti aziende locali. Un altro aspetto negativo fu la mancanza di scorte nei transit point, che non permetteva di fare fronte in modo immediato alle emergenze dei clienti.
Alberto Frausin, amministratore delegato di Carlsberg Italia, in una lunga intervista (I tre pilastri del rilancio di Carlsberg del dicembre 2012) racconta che ha tentato di rivoluzionare la distribuzione e il packaging della birra proponendo materiali e tecnologie eco-compatibili. Il fusto di plastica in pet “polietilene tereftalato” da 20 litri, era una strategia già rivelatasi fallimentare in nord Europa, ma  Frausin decide di rilanciare questo progetto in Italia!
In Carlserg, prima di Frausin, avevano fallito ben 3 amministratori delegati: Marcello Verratti fino al 2003, Claudio Riva fino al 2006 e infine il polacco Boguslaw Bartczak nel 2007. A causa dei 110 milioni di perdite tra il 2006 e il 2007 la prima mossa fu la chiusura dello stabilimento di Ceccano con 70 dipendenti.
L’avanzata in Italia del settore delle birre artigianali minaccia la leadership di multinazionali come Carlsberg e Heineken. La crisi internazionale tra Russia e Occidente ha danneggiato le aziende leader nella grande produzione e distribuzione di birra. Nonostante i buoni risultati nel 2013 e nel primo semestre del 2014 Heineken annunciò previsioni al ribasso per la seconda metà del 2014; nello stesso periodo Carlsberg risentì maggiormente i colpi della crisi. Questo differenza si spiega rapidamente perché Heineken era molto meno esposta in Russia e nei mercati dell’Est Europa, al contrario Carlsberg era leader del mercato della birra, dove ora sconta pesanti perdite del fatturato. Oltre un terzo dei profitti del birrificio danese, infatti, provenivano dal mercato russo, ora pesantemente condizionato dal blocco delle importazioni.


I report ufficiali fanno sapere che nei primi sei mesi del 2014 il gruppo ha registrato un calo del 7% degli utili, mentre la sua quota di mercato ha subito un calo di 1,2 punti, scendendo al 37,4%. A novembre 2015 il produttore danese corre ai ripari e per aumentare la redditività annuncia una sforbiciata al 15% del personale: il taglio di 2 mila posti di lavoro, nell’ambito di un piano di risparmi per circa 288 milioni di dollari annui, verrà effettuato tra il 2015 e il 2017.

Carlsberg comunque ha deciso di deliziarci non con nuove birre ma con ben altro.

I proprietari della birreria romana “Luppolo Station” hanno reso noto che Carlsberg, gli ha inviato  una lettera dove chiedeva il ritiro del marchio “Luppolo Station”, perché troppo simile al nome di una loro birra, la “Poretti 3 Luppoli”. La vicenda è diventata pubblica quando quelli di Luppolo Station hanno trasmesso ai social network una parte della lettera ricevuta e la loro risposta, dove spiegano con toni duri che non intendono cambiare il nome al locale. Carlsberg ha fatto sapere che il testo pubblicato è lo stesso che ha inviato, ma non ha saputo confermare se è una diffida ufficiale e afferma solamente che presto si metterà in contatto con i proprietari della birreria per chiarimenti. In sintesi la multinazionale afferma che il marchio della birreria potrebbe indurre gli utenti a ritenere erroneamente che i servizi di ristorazione provengano da loro. Quelli di Luppolo Station per somma risposta si sono impegnati a comunicare a tutta la clientela romana che loro con Carlsberg non hanno nulla in comune, in quanto servono prodotti totalmente differenti per produzione e qualità.
Sempre in tema di “le fantastiche strategie aziendali”, Carlsberg Italia pianterà un albero ogni tre fusti di birra spillati nel padiglione Italia ad Expo 2015. La tecnologia alla base dell’iniziativa è il nuovo sistema di spillatura DraughtMaster: la birra viene spillata a pressione dai famigerati fusti in Pet. Non essendo più necessaria l’anidride carbonica aggiunta nei tradizionali fusti in acciaio si risparmiano circa 25 chili di co2 pari all’equivalente-anno di un albero. Di fatto sono convinti che questo produrrà una ricaduta positiva sui conti aziendali, che fa della sostenibilità anche una leva competitiva. Frausin afferma che :”Se la sostenibilità è interpretata come valore che diamo alle nostre persone, passione, innovazione, tecnologia, la sostenibilità può essere un fattore di crescita molto importante per il futuro“.
Viene da chiedersi se Frausin beve la “poretti 3 luppoli” o la birra “cannabis”. Ah saperlo!

L’esempio sopra esposto indica che non sempre gli investimenti diretti esteri sono un toccasana per le economie nazionali, ma in un paese che ha visto un crollo della produzione industriale e dove molti imprenditori non hanno più fiducia nel futuro economico dell’Italia, con amara ironia è il meglio che possiamo attenderci.

Disclaimer di Nuke:
Pubblico una nota tecnica sul sistema Draughtmaster, ovvero i fusti in polietilene proposti da Calspberg.
Si tratta di una tecnologia proprietaria che vieta a priori l’utilizzo di fusti in alluminio, che quindi obbliga la birreria a fornirsi solo dalla multinazionale.
troppo lunga la storia dei sistemi utilizzati dalle multinazionali stesse per costringere i clienti alla “fedeltà”, ma, dal punti di vista commerciale, con un mare di produttori sul mercato, la strategia può rivelarsi fallimentare, ovvero incapace di oltrepassare certe quote di mercato.
Da una parte si riduce il costo del trasporto e del reso dei fusti in alluminio, non c’è bisogno del ciclo di pulizia degli ugelli durante lo scambio, ma dall’altra c’è la necessità di refrigerare l’intero fusto, cosa che complica i cambi e aumenta i consumi elettrici.
Inoltre una errata spillatura può anche comportare una spreco  di birra che diventerebbe “sgassata” verso la fine del fusto, e non più commercializzabile.